Si tratta di una pianta velenosa, annuale, talvolta biennale, che un tempo era molto comune in Italia, ma a causa della modificazione del suo habitat, occupato da specie più invadenti e resistenti, oggi è diventata piuttosto rara.
La pianta può raggiungere anche un metro di altezza. Ha lunghe radici fusiformi, con diverse ramificazioni che permettono un ancoraggio più sicuro al terreno.
Il fusto è eretto, spesso ramificato, ricoperto da peli setosi e vischiosi, che sono presenti anche sul resto della pianta, conferendole un aspetto biancastro.
Le foglie grandi circa 2-3 cm, hanno forma ovata-allungata con margine grossolanamente dentato, di color verde-grigiastro opaco.
I fiori riuniti in un racemo, possono essere solitari o in gruppi non molto numerosi. Fioriscono in diverse fasi e tendono a orientarsi voltandosi tutti dallo stesso lato. La corolla è imbutiforme-tubolosa, divisa in 5 lobi arrotondati, dalla bella e caratteristica colorazione gialla, screziata di venature violacee nell’interno.
Il frutto è una capsula a forma di pisside che aprendosi superiormente, mostra dei piccolissimi semi scuri.
L’uso domestico di questa pianta, è assolutamente da evitare, in quanto tutte le sue parti, sono altamente tossiche e possono addirittura provocare la morte, se ingerite. Ciò nonostante, il Giusquiamo Nero, ha una lunga tradizione come rimedio medicinale.
Per le sue proprietà sedative e narcotiche, era ritenuta la pianta officinale dell’alchimia medievale, associata al demonio e utilizzata nei riti magici che invocavano il diavolo.
I suoi alcaloidi vennero usati per avvelenare il re padre, nell’Amleto di Shakespeare, addirittura versati nell’orecchio, durante il sonno. Le proprietà sedative della pianta, già conosciute ai Babilonesi, Persiani, Egizi e Arabi, furono sfruttate come narcotico nelle operazioni chirurgiche fin dal XV° secolo, per entrare a far parte delle prime ricette anestetiche insieme al succo di Mandragora e all’Oppio, nel 1800.
Nei moderni rimedi omeopatici e in naturopatia, viene oggi utilizzata la tintura madre, ricavata dalla pianta durante la fioritura, nel trattamento del nervosismo, stress e tossi insistenti.
Il nome botanico della pianta fu dato da Linneo, in osservazione del fatto che i maiali (dal greco Hyòs), potevano cibarsi senza conseguenze, delle sue radici fatte a forma di fava (kyamos). Infatti la pianta è tutt’oggi chiamata popolarmente Fava Porcina. L’epiteto latino “Niger” significa nero, ed è riferito al reticolo scuro presente in fondo alla corolla e nelle venature dei suoi fiori.
Fotografato sulle Cornate di Gerfalco
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